8 Novembre
Nei tempi passati, ma non remoti, le scarpe vere e proprie costituivano per la nostra gente un privilegio riservato agli abbienti o un lusso per le grandi feste.
La maggior parte, infatti, si doveva accontentare delle dalmede (o sgalmere o galoze). Dettagliata e interessante la descrizione che di queste calzature fa il maestro Corrado Trotter, nel libro "Vita Primierotta nei suoi costumi, tradizioni e leggende". Scrive: "la dalmeda era una calzatura economica composta da una suola con tacco ritagliata da un solo pezzo di legno che di solito era di faggio, ma per quelle leggere dei bambini come per le ciabatte delle donne (zopei de le femene) si usava l'acero che era più leggero.
Questa suola detta tapa, essendo isolante, teneva i piedi caldi e asciutti d'inverno, tant'è vero che molti le indossavano senza calze (calzaroti) con dentro un pò di fieno.
Le tape venivano preparate dai contadini stessi durante l'inverno, nella stua o nel filo con molta abilità. Su queste venivano imbullonate le tomaie con una fila di chiodini a testa larga.
Le tomaie erano di solito di cuoio duro, resistente che, se non si ungeva con la sonda, diventava secco.
Quelle semplici, per le dalmede usate sul lavoro, erano senza linguella e si allacciavano con una stringa che passava per i forellini non sempre orlati da un anello.
Queste dalmede poi venivano imbroccate (imbrocade o inbrochetade) lungo l'orlo della suola e del tacco e tante volte anche nel mezzo per impedire l'usura veloce del legno.
D'inverno poi, per non scivolare, venivano fornite di feri che erano modellati a ferro di cavallo con quattro punte e che venivano inchiodati o avvitati al tacco.
Logicamente chi portava in giro simili calzature non poteva evitare di fare un rumore indiavolato e da qui si arrivò al significato di sdalmeder che significa uomo goffo e rozzo.
Per i bambini e per le donne anche i nostri vecchi erano capaci di approntare delle dalmede eleganti e leggere che erano una meraviglia e che si usavano alla domenica.
La tomaia era di pelle più morbida, i suoi pezzi lungo le cuciture erano rifiniti a capete o avevano dei forellini ornamentali. 'Na scarpa e 'n zocol dicevano i nostri antenati quando vedevano due cose messe insieme che stonavano, appunto perché la scarpa rappresentava el sior e 'l zocol el poret.
Altro modo di dire bisogna 'ndar coi piei te le scarpe, dicevano quando erano necessarie precauzione e prudenza.
Racconta un'anziana donna di Ronco: "il clic clac delle dalmede sulle nostre strade è sempre stato per noi una "voce" amica.
Quando nelle sere buie e silenziose eravamo in viaggio, soli, non avevamo paura di colui che eventualmente ci veniva incontro o ci seguiva, se portava le dalmede.
Comprendevamo subito, dal battere delle dalmede, se la persona che scendeva dal signoredio della costa, dai nicolodi, dai danoli, dai reversi era un uomo, una donna o un ragazzo, se aveva fretta o no. Se scendeva di corsa lo attendevamo con una certa ansia perché si temeva recasse la notizia di qualche disgrazia.
Se aspettavamo delle persone care, erano le dalmede che ce ne segnalavano l'arrivo".
8 Novembre 1917
Durante la ritirata delle truppe italiane, dopo la rotta di Caporetto, la popolazione delle nostre valli trascorse anche momenti di pericolo e giornate di paura.
Le donne, i bambini e i vecchi si radunavano perciò nelle cantine e nelle stalle a "volt"; le altre persone si muovevano il meno possibile, più che altro per governare gli animali e per procurare l'acqua e i cibi necessari.
Molti avvenimenti si susseguirono dal 3 al 9 novembre del 1917. Per le strade passarono lunghe colonne di soldati, di carri e automezzi italiani.
Vicino a San Martino furono incendiate parecchie baracche ed abbattuti gli ingressi delle caverne e delle gallerie adibite a magazzino.
Vennero distrutti la centrale elettrica della Viosa e gli impianti di frantumazione delle miniere di Pralongo.
Caddero e in parte bruciarono le stazioni principali e quella di smistamento (a Revedea) della teleferica militare che collegava i Masi di Imer con i Giaroi di Ronco.
Crollò il ponte in granito sul Vanoi e quelli sul riu e sul Lozen.
Saltarono in aria i forni dei panifici di Fiera e di Canale, infrangendo per un largo spazio i vetri delle case.
Si minarono e si schiantarono tratti di stradone dello Schener (vicino a Pontet), della Cortella (a Sant'Antoni) e del Brocon (presso la galleria). Poi cominciarono a sparare i cannoni della Totoga.
Le bombe erano indirizzate dove si muovevano dei soldati austriaci.
Colpirono la chiesa di Canale, abbattendo due colonne dell'altare della Madonna e danneggiando anche la bella statua della Vergine.
A Canale colpirono pure la canonica e la piazzetta di Pesol.
Due granate caddero nelle scuole di Ronco Costa e una ai Minei.
Il 7 novembre i soldati del battaglione Cividale (sulla linea stretta Cismon – Vederne – Pavione - Ramezza) e Tagliamento (sul Totoga) italiani impiegarono la giornata nel rafforzamento delle posizioni e nella distribuzione dei depositi, specialmente sulle Vederne.
Nel frattempo alcuni battaglioni di fanteria raggiunsero gli Arpachi e cima Remite, dove c'erano 4 cannoni da 149 g e 4 da 75 a. Sia sulla Totoga che sulle Vederne si trovavano pure importanti gruppi di artiglieria.
Lo stesso giorno gli austriaci, arrivati il 6 a Fiera, rinforzati da nuovi reparti entrati da Rolle, avanzarono fino a Mezzano ed Imer.
Nella Valle del Vanoi, sempre il 7 novembre, due compagnie superata una piccola resistenza a Macagnan e Madrizi, raggiunsero Canale e Ronco.