16 Novembre
Dagli annali meteorologici dell'Impero Austro-ungarico si rileva che le località più piovose dell'Impero fossero Primiero e Salisburgo.
16 Novembre
Queste note ricordano gli espedienti usati dagli abitanti del Vanoi, durante le due ultime guerre, per fronteggiare la "crisi" del tabacco.
Prima di tutto cercarono di ottenere dal comune il maggior numero di tessere per il tabacco venduto dalle privative.
A tale scopo tutti gli uomini di età superiore ai 18 anni, presenti in paese e numerosissime donne si misero in lista come fumatori e tabacconi.
Anche il nome di qualche assente e recente defunto comparve negli elenchi.
Le donne, che allora, a Ronco, erano tre a fumare la pipa e nove a "tabaccare", passavano poi le loro razioni agli uomini della famiglia o ai vecchi e malati vicini, in particolari occasioni (sagra, onomastico, compleanno) o quando questi non riuscivano a contenere la voglia di fumare.
Alcuni fumavano addirittura il tabacco da fiuto, mettendo in fondo alla pipa foglie o erbe secche per evitare che la polvere otturasse la cannuccia o salisse in bocca.
Nel tabacco di stato si trovavano di frequente foglie di faggio o altre erbe.
Molte mamme e fidanzate tennero in serbo sigari e sigarette per darli ai propri cari il giorno in cui sarebbero ritornati dalla guerra.
Le vedove e le nubili sole cedevano il tabacco in cambio di latte, formaggio, burro, legna e prestazioni di lavoro.
Il secondo rimedio fu la coltivazione del tabacco detto anche "de ort o de masiera". Vi erano orti di ogni forma e dimensione, nei boschi e sui masi, nei luoghi fuori mano più impensati e difficili da trovare e da raggiungere.
Piantine di tabacco si collocarono pure nei campi di granoturco, tra fave ed altre fiori e in cassette e vasi posti in soffitta o sulle "bighe". A volte i gendarmi e le guardie di finanza scoprivano queste colture di tabacco.
Se erano nei boschi comunali estirpavano le piante, se erano nei masi, nei campi o vicino alle case cercavano i proprietari, i quali però si giustificavano affermando che la coltivazione era opera di ignoti oppure che il seme era certamente mescolato con le sementi dei fiori e dell'insalata acquistate da girovaghi.
Gli agenti fingevano di credere e si limitavano, fatta eliminare la coltivazione, a rivolgere una breve romanzina ai presenti.
Capivano infatti che non recavano alcun danno allo stato perché tutto il tabacco disponibile nelle tabaccherie veniva acquistato dalla popolazione.
Altro espediente fu l'acquisto del tabacco di "trodi", che proveniva dalle Valle del Brenta.
I portatori - contrabbandieri (el pendol, bafi rossi) che percorrevano i "troi" della Cortella o della Val Nuvola, conoscevano una ad una le persone a cui vendere la loro merce.
La fornivano in mannelli di foglie arrotolate come un arrosto di vitello, un tabacco forte e scuro (mas-cio), ed anche se la concia era fatta alla buona risultava più gradito di quello di "masiera". L'ultimo ripiego adottato dai fumatori più accaniti fu di utilizzare imperatoria erba di patate, rabarbaro e altre foglie secche di color tabacco.
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Il portatore di auguri El Gioani Pericol di Corrado Trotter
La parola “auguri” si è sentita ancora risuonare in particolare nelle festività del Natale e del Capodanno all’incontro di parenti, di amici, di conoscenti. M’è venuta spontanea alla mente in quell’occasione la ben nota figura dell’unico portatore di auguri apparso nei nostri abitati e sparito da ormai 25 anni, nel 1961.
Si tratta di Giovanni Battista Nicolao di Imer. Credo che sia un auspicio per me e per tutti ricordarlo all’inizio di questo anno nuovo, anzi vorrei che ognuno lo immaginasse nell’atto di porgergli la mano e sentirlo rivolgergli un timido ma sincero augurio.
Tutti lo conoscevano attraverso il suo soprannome di PERICOL che forse gli era stato affibbiato quale antitesi alla sua mansuetudine, alla sua innocuità. Era un uomo che non è diventato mai vecchio, abituati come s’era a vederlo sempre camminare lesto, con unacerta energia, facendo “barchi lunghi” tanto da sembrare che le sue gambe fossero senza ginocchi, cioè con passo lungo, ma nel contempo leggero, elastico, e cadenzato. Sembrava che avesse avuto sempre una gran fretta per impegni inderogabili. Portava con importanza e rispetto un cappello “co la capirla alta e spìza”, con una tesa rivolta all’insù e una al basso e sempre ornato di qualche medaglia o spilla o fiore che richiamava alla mente quello dei coscritti. Indossava solitamente una giacca lunga e scura che teneva sempre aperta, sotto il collo della quale era immancabile, estate e inverno, una piccola sciarpa con righette nere, di seta artificiale o diremo di cotone mercerizzato, sempre sciolta e libera, che scendeva coi due capi verso il panciotto attraversato da una grossa catena d’argento o di metallo bianco, simile a quella che portavano gli aisenpòneri.
E con quella grazia signorile sapeva togliere il grosso orologio dal taschino. Lo teneva dolcemente sul palmo della mano per leggerne l’ora; lo accarezzava con quelle sue mani piccole, con quelle sue dita affusolate e inanellate da almeno “’na varata de òro e deardènt” e da un paio di anelli di scarso valore, “patàche”, ma che a lui piacevano tanto e che sapeva così elegantemente mettere in mostra.
I pantaloni erano in realtà o apparivano d’essere allargati all’altezza del ginocchio perché alla caviglia erano più stretti: forse erano dotati d’un astico o di qualche altro sistema che li restringeva. Se al posto del cappello grigio avesse portato la bombetta, il suo abbigliamento sarebbe stato di tipo charlottiano. Nei suoi quotidiani giri per la valle, suo fedele compagno era l’ombrello che teneva infilato nel braccio sinistro e qualche volta anche in uno dei taschini superiori del gilè.
Era un tipo dimesso, ma sempre pulito e ordinato nella persona e nel vestito e , alla distanza di molti anni si è mantenuto sempre uguale. Era piuttosto timido, ma gli piaceva un mondo stare in compagnia di persone allegre e di buonsenso, ascoltava i discorsi, specie quelli che avevano il sapore delle novità. Per questo forse i suoi denigratori l’hanno sovente calunniato dicendo che era pettegolo e “portainferi” e con lui discorrevano solo di argomenti vaghi. Se aveva un vizio era quello di fumare: l’ho sempre visto con un mezzo toscano o un toscanello che muoveva in bocca. Aveva una gran cura dei suoi capelli ondulati che gli uscivano di sotto all’ala alzata del cappello con un ciuffo folto, simile a quello che i bravi dei Promessi Sposi imprigionavano nella reticella. I baffi non molto lunghi che si appuntiva frequentemente con le dita, non offuscavano l’espressione mansueta del volto che un risolino continuo a occhi semichiusi, faceva diventare spesso sorniona come quella di chi prende in giro. Sul suo viso non si leggevano facilmente i segni del tempo.
Suo padre si chiamava Celestino Nicolao (1856 – 1939) fu G. Batta ed Antonia Gubert. Era un uomo grande e grosso che si era sposato tre volte. Per il primo matrimonio fu galeotto il mercato di Fiera che a quei tempi si faceva ogni sabato. Vi confluiva anche il bestiame dei numerosi villaggi della Valle del Vanoi. Qualcuno dei proprietari, per non viaggiare nella notte, e per arrivare presto al mercato, perché i nostri vecchi seguivano il detto “bonora al marcà e tardi a la guera”, pernottava a Imer il venerdì sera.
In uno di questi venerdì di circa cent’anni fa – mi rivela il vecchio e simpatico Gaio Leopoldo di Imer, col sou dire garbato e umoristico, e che è sempre abitato a due passi dalla casa di Celestino, sulla stessa piazzetta adiacente alla statale, ricordando lucidamente fatti e frasi, giunsero tre sorelle Rattin di Giuseppe da Ronco, tre discrete ragazze, ed il nostro Celestino, andando in filò la sera, invitato dallaNenòta dei Robini che le ospitava, se ne accaparrò una e cioè Virginia che non molto tempo dopo diventò sua moglie. La donna morì a soli 44 anni nel 1903. tre ricordi di questa prima moglie gli rimasero sempre nella memoria: “le lasagne del dì de le nòze che le savéa de fortìn” perché condite col burro troppo vecchio, diventato ormai un po’ rancido; il pianto della sposa che lasciava la sua famiglia per una vita nuova e che scendendo “ per il troi verso el pònt de San Bortol” seccò lo sposo che l’apostrofò: - “Sènti, pitòst che ti àpi tant de sgninfàr l’è meio che ti vaghi de vòlta”; ed infine l’eredità di lei, alla morte del padre, consistente in tre capre. “Ma siccome el Zelestìno no’l le podéa véder le càore” – continua il Gaio riandando piacevolmente nel lontano passato – di sera nella stalla, una volta ne strangolò almeno due, facendo credere alla moglie che “le se èra impegnàde te la cadena che le tegnéa ligàde a la crìpia”. Da questo primo matrimonio oltre a Palma (1887 -1980), nacquero nell’anno 1888 il nostro Giovanni detto popolarmente “Il Giani Pericol” e quindi Giacobbe (1894 – 1969) emigrato e sposatosi a Bronzolo nel 1935.
Celestino tirò avanti, allevando i suoi due figlioli rispettivamente di 15 e 9 anni, come fu capace. Nel 1914 si risposò con Alberti Margherita di Francesco e Teresa Zugliani, vedova di Nicolao Giovanni, che morì ancor giovane a 58 anni nel 1918, fu un matrimonio breve, di soli quattro anni e logicamente senza figli. I primi due figli erano cresciuti, ma l’uomo non volle restar solo e nel 1921 si sposò per la terza volta con Tomas Margherita (1881 – 1947) di Domenico e Loss Giacobba e da questa nuova unione nacque la figlia Palma Candida nel 1922.
Giovanni da ragazzo era piuttosto delicato, perciò fu tenuto lontano dai lavori agricoli ritenuti troppo pesanti per lui, mentre suo fratello Giacobbe, chiamato dal padre “professor de barabèch e de càgna”, lavorava sempre in campagna o nel bosco anche per lui. Ciononostante questi era sempre “lustro de bèzi”, e quindi gli venne di commettere anche qualche “malagrazia” come quella volta che vendette il fieno del tabià de San Pàol a dei carrettieri che lavoravano nel bosco, lasciando intatta all’esterno e ricoprendo con frasche la mità, sicchè quando suo padre vi si recò per trasportarlo giù, la trovò all’interno completamente vuota e per di più vi cascò dentro.
El Giàni invece, così veniva chiamato in famiglia e dai vicini, crebbe molto docile, rispettoso e obbediente. Era pulitissimo “sputiòs” come si dice, tanto nella persona quanto nella casa, ove rigovernava tutto lui con molta cura. “Qua, se no ghe son mi, diceva, vèn tut sporch fin su sot!”. Scopava con amore gli anditi adiacenti, la piazzuola con la fontana nel mezz, perfino parte dello stradone. Fu visto più d’una volta chinarsi, mentre passava, a “binar su parfin ‘na piuma de pìta”, che l’aria faceva muovere sul suolo e che gli dava fastidio al solo pensare dove sarebbe andata a finire, ad incantonarsi. Sarebbe diventato uno spazzino ideale, zelante dell’ordine e della pulizia del suo paese che ogni tanto andava di sua volontà a ripulire, scopando per bene qualche luogo particolare, magari alla vigilia d’una festa. Dopo i temporali primaverili o estivi per esempio, faceva sempre un giretto per il paese per controllare gli effetti del vento. Trovava sempre qualche “scandola” caduta dal tetto di case o fienili: se era buona l’addossava verticalmente al muro dello stabile, mentre di quelle mezze fradice ne faceva un fascetto e se le portava a casa per legna. In tal modo nel suo giretto univa l’utile al dilettevole: un utile però ch’era anche più collettivo che personale.
Gli venne anche proposta l’assunzione da parte del Comune, ma egli, abituatosi ormai alle sue escursioni quotidiane nella valle, non poteva e non intendeva impegnarsi, e di legarsi a un lavoro fisso. Fato sta che il nostro Pericol, assunte queste abitudini fin dall’infanzia, dava subito l’impressione esterna di non essere un contadino o un operaio di rudi maniere, era molto diverso.
Provava grande diletto quando poteva dare una mano per sbrigare qualche servizio di serietà e di fiducia in qualche esercizio, per esempio in un bar o in qualche bottega, alla posta o in qualche famiglia. Era onestissimo, segreto e disimpegnava ogni incarico con serietà. Quante volte fu visto a sfaccendare o a lavare i bicchieri nel bar dell’Albergo al Pavone dal “sior Piero”, purchè fosse comunque un lavoro disobbligato, che non lo tenesse impegnato in continuità. E poiché era, oltre che servizievole, anche di animo cortese, un bel giorno finalmente trovò la vera occupazione che gli andava a genio. Dopo averla sperimentata, fatti i suoi calcoli, ritenne anche che fosse sufficiente per sbarcare il lunario: aveva ormai deciso di fare il “portatore d’auguri” a tutte le persone della sua valle che festeggiavano il proprio onomastico.
Gli inizi non furono tanto facili: si trattava d’una nuova professione mai intrapresa prima da qualcun altro. Si rifornì di calendari; cercò consigli presso qualche paziente Cappuccino del convento di Fiera, onde sapersela sbrigare nei casi dubbi e così ogni giorno aveva, secondo le conoscenze o le informazioni che chiedeva a qualche donna, già pronto nella memoria fin dalla vigilia il suo itinerario da percorrere. Certi giorni erano “grassi” diceva lui, quando il santo di cui scadeva l’anniversario era stato preso a modello e protettore da molti dei nostri vecchi, ma purtroppo arrivavano anche i giorni magri, quando per esempio il calendario segnava : San Eustorgio, San Prisco; San Ermete, Santa Cunegonda, Santa Brigida, Santa Pelagia, ecc.
Arrivò a conoscere tutta la popolazione del Primierotto come nessun altro; conosceva perfino il nome dei ragazzi, dei bimbi. Quando scadevano i nomi più diffusi, per esempio di: Maria, Margherita, Antonio, Giovanni Battista, Giuseppe, ecc. il suo giro augurale cominciava addirittura alla vigilia e si protraeva certe volte fino all’indomani della scadenza del santo: era la necessità professionale che egli adempiva ben volentieri, specie se nel giorno precedente o seguente i nomi dei santi ricorrenti, come spesse accade, non avevano molti seguaci.
Nel periodo estivo allargava il suo giro fino a raggiungere le malghe, specie se si trattava di festeggiare qualche “caser” conosciuto, dal quale cercava di rimediare un tantino di burro o di formaggio da “méter te la rìfa” che, in questi straordinari portava all’occorrenza con sé, e se il viaggio era stato positivo, tornava a casa felice come avesse scoperto un tesoro.
Generalmente si metteva in moto ancora di prima mattina e sapeva programmare il suo iter con ordine per non dover allungare inutilmente la strada. Bussava discretamente alla porta e poi, senza attendere risposta, specie ove aveva più confidenza, pian pianino, come se non avesse voluto disturbare, entrava e si presentava nella cucina o nel soggiorno. Se la persona che festeggiava l’onomastico, era presente, si indirizzava con fare spiccio, anche passando dinanzi ad altre persone, verso di lei e, col più splendido sorriso e con molta serietà, porgeva la mano formulando l’augurio. Un augurio piuttosto scarno: “Auguri alora” oppure “Bòn onomastico” e serrava e scuoteva discretamente la mano. Quindi, anche senz’essere invitato, specie nelle famiglie dove sapeva d’essere accolto con simpatia, prendeva una sedia e si accomodava, logicamente in attesa d’una qualche ricompensa, “ma soratùt d’en piàt de bèla ziéra”.
Che fare? Tutti capivano bene che questo suo atteggiamento era una specie di questua ornata, camuffata dall’augurio, ma che importanza aveva tutto questo? A tutta la gente civile fa piacere ricevere un augurio. Ecco quindi che qualcuno gli offriva da bere e da mangiare, altri un po’ di denaro, misurato dalla sua possibilità o generosità, ed era soprattutto a quest’ultima offerta che egli mirava, ricusando alle volte il cibo assicurando che aveva mangiato da poco. Ed era certamente la verità, per cui cinque lire, dieci lire, gli facevano più comodo per il giorno dopo che rimpinzarsi, tanto più che egli era piuttosto parco e non portato all’alcool.
Aveva sempre nelle tasche una caramella da offrire ad ogni bambino, di quelle più piccole, attaccaticce; se si trattava d’un giovane o di un uomo gli offriva una sigaretta, ma con un fare gentile, di compiacenza, compìto. Infatti non era per nulla sfacciato, non pretendeva nulla. Nel pomeriggio, a chi gli offriva da mangiare, di solito rispondeva: “O ben magnà ‘n poc su ai Frati ‘ncoi” ed in realtà passava quasi ogni giorno dal Convento per rimediare l’uno o l’altro pasto che ripagava però con qualche servizio o qualche missione. Accettava semmai volentieri un pezzetto di dolce o qualche biscotto ed un bicchier di vino oppure il caffè.
Non è vero che fosse uno scroccone, uno “spianasti”, come tanti affermano ancora. Certo che alle volte arrivasse proprio nel momento meno opportuno, quando il dolce era ormai finito o quando il festeggiato non c’era in casa, questo non si può negare, ma era una conseguenza incoercibile della sua professione, poiché tutto dipendeva dal tempo usato in ogni visita. Egli comunque riteneva come un impegno, un dovere, quasi una missione quella di bene augurare e sono certo che egli lo facesse sempre in buona fede, senza scopo di lucro. Certo doveva pur vivere anche lui, questo lo avrebbero dovuto comprendere tutti. Invece purtroppo, specie in certe famiglie ove onomastici e compleanno sono tutt’ora chiamati “cagnare da bontemponi”, lo ritenevano un intruso, uno scansafatiche e lo mandavano via anche in malo modo. Egli se ne andava silenzioso, senza scomporsi, togliendosi in fretta dalla vista, quasi vergognoso e sempre con il suo enigmatico sorriso che gli radiava il viso e con l’inseparabile toscano in bocca. Il nome però di quella famiglia veniva cancellato per sempre dal suo taccuino mentale; si perchédentro, nei rari casi quando veniva maltrattato, stava veramente male da soffrirne ed il ricordo della troppo poco gradita sua presenza gli restava fisso come uno spino che pungeva un sentimento delicato vilipeso. Infatti sostava un po’ più a lungo nelle famiglie ove gli veniva ricambiata la confidenza, specie verso sera, quando aveva più tempo poiché il giro stava per concludersi. Quando trovava modo di dialogare faceva anche un commento composto, un resoconto della sua giornata:
-Encoi la è ndàta menomal. Su a la fiera dei … ò ciapà …; a Transacqua el … el me à dàt…; ma ànca a Siror i é stati bravi, su dei … ànca se me à tocà lasàrghe a lori i auguri par so fiol Meto che l’è ndàt ancora sta primavera a laorar in Francia…
Certe volte invece, con un tono di doloroso risentimento doveva concludere o almeno constatare con amarezza:
-El tal invéze el me à dit che vàghe a laoràar, che son ‘na lipa… el tal altro po’ el me à scorsà co’na bes-céma…
Allora, per tentare di attutire il suo dispiacere, gli dicevano:
-No sta badàrghe, Gioani, a sta dènt che no capìs gnànca ‘na dentiléza, e po’, ti sa ben ànca tì, dipènde se i afàri i va ben o i va mal, dipendeànca da come che i se càta t’en quel minut che ti rùi là, i pòl aér bù la luna stòrta e chi sa el parchè…
Egli mi ascoltava e mi guardava in silenzio. Ritornava a casa anche dopo le otto, ma per i contadini è già tardi. Vi trovava silenzio o la sorella Palma che gli aveva preparata la cena diventata fredda, perciò se non aveva già cenato presso qualche famiglia , mangiava qualcosa a freddo: “’na féta de polenta vanzàda co ‘n tocàt de formai” che a volte aveva ricevuto in dono nel suo giro e che egli sempre elogiava “ o parchè ‘l era stajonà o parchè ‘l era sorrì”, persuadendosi forse in tal modo d’essere stato trattato con riguardo.
Suo padre gli chiedeva spesso: - Ònde vàtu ògni di che no ti végni mai a cas, setantasète òlte a la Fiera?!-
I vicini di casa che sanno moltiparticolari della vita de ‘l Giorni Pericol mi dicono: - El Giorni ‘l à vivèst depì de tuti, parchè ‘l à dromìst poch, demò tre quatro ore ògni not: el ‘ndéa a dromir tardi e ‘l levéa sempre bonora.
Anche lui però si lasciava prendere da qualche momento di sconforto, come del resto tocca a tutti, ed era allora che si metteva a suonare la sua “spinéta” cioè la fisarmonica a bocca. Era molto abile nell’usare questo strumento e solo qualche rara volta la levava dalla tasca interna della giacca e suonava qualche breve tratto nelle case dove aveva più confidenza, specie quando c’era qualche bimbo o ragazzino ad ascoltarlo. Riguardo questa sua specialità mi è stata ripetuta una battuta buffa di suo padre. Siccome aveva imparato a celare così bene ogni sintomo di respirazione, tanto da sembrare che suonasse tutto d’un fiato, suo padre non capiva come facesse e ripeteva: - Mi no so proprio come che ‘l fàghe a sònar cossì, el par quasi che ‘l respire co ‘l cul! - .
Caro Pericol, col suo animo così ottimista e con la sua infantile vanità, specie ultimamente quando si levava quasi mai il cappello, non solo perché per lui, ornato come era, era pressoché un simbolo della sua personalità, ma per non apparire invecchiato in seguito alla calvizia purtroppo incipiente. Voleva restar giovane, nel mezzo dei rapporti sociali e per questo si tingeva perfino i baffi diventati grigi.
Ormai era diventata una visita familiare la sua, anche nella mia casa, e quando lo vedevo arrivare lo apostrofavo: - Oh sei qui, uomo pericoloso?! – Egli rideva di gusto, tanto da dover togliersi il toscanello di bocca, ed il tono della sua risata a fiotti usciva attutito quasi frantumato attraverso i baffi. I miei ragazzi lo ricordano quando dava loro la tradizionale caramella con un gesto solenne, delicato, direi sacerdotale. Se per caso trovava l’uscio chiuso perché in casa non c’era nessuno, deponeva i suoi omaggi sulla cassapanca presso la porta d’ingresso, eccetto la sigaretta per me, che più volte ho trovato infilata nel buco della serratura. Erano queste le testimonianze del suo passaggio augurale e, nello stesso tempo, l’avviso che forse sarebbe ritornato; erano i segni comunque della sua gentilezza d’animo offerta cordialmente a chi ne faceva più caso. Bisognava riceverli con rispetto ed amore, l’amore d’un fratello vicino a noi.
Oggi trascorre veloce il giorno dell’onomastico, spesso senza alcun altro ricordo all’infuori di quello della propria famiglia, senza alcun speciale diversivo. La tipica charlottiana e bonaria figura di Giovanni Nicolao non passa più a risuscitarci cari ricordi da molto tempo sopiti, a richiamarci il nostro santo protettore e tutte quelle persone che in valle portano il nostro nome , a rallegrare la nostra giornata con un sorriso semplice e sincero, chiaro come il cielo di maggio.